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SIGNS
(SIGNS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 31 ottobre 2002
 
con Mel Gibson, Joaquin Phoenix, Cherry Jones, Rory Culky (Stati Uniti, 2002)
 
Riacquistare la fede grazie agli extraterrestri: mah… Di sceneggiature sballate se ne sono viste parecchie, intendiamoci: ma, sorpresa numero uno, quella di SIGNS ci giunge da una grossa produzione americana. La quale, a partire dagli albori della settima arte, si è fatta la reputazione per essere tutt'altro che fessa in materia: costruire ben bene le fondamenta, prima di abbandonarsi alle eventuali, preziose ma quanto più effimere delizie dell'invenzione registica.

Sorpresa numero due: che questo thriller-fanta-metafisico su di un pastore (Mel Gibson, completamente spaesato) che abbandona la tonaca in seguito ad un terribile incidente mortale accaduto alla moglie, ma che ci ripensa quando si accorge che i segnali paranormali che gli giungono non sono dovuti al Caso ed alle fantasie da videogioco del figlioletto, sia firmato da M. Night Shyamalan. Da qualcuno, cioè, che in IL PREDISTINATO e, prima ancora, nel quasi mitico IL SESTO SENSO aveva dato prova di originalità all'interno della banalizzazione dilagante ad Hollywood: e, forse anche per le sue origini indiane, per una conseguente vocazione spirituale, dimostrato di essere attento alle psicologie, oltre che ad una espressività piuttosto raffinata. Di saper esplorare l'intimità e le motivazioni dei propri personaggi: e non solo il fantastico costruito con le gelatine verdognole care agli scopiazzatori de L'ESORCISTA.

La prima parte di SIGNS (la scoperta del protagonista nel proprio campo di granoturco di quegli immensi e misteriosi cerchi sull'origine dei quali permane il mistero; altri "segni" di malessere che si introducono progressivamente nel suo nucleo familiare) conferma le attitudini del regista: a far respirare i tempi e gli spazi, a lasciarci di conseguenza il tempo per familiarizzarci con le situazioni. A spiare l'indicibile, speculare sull'ambiguità delle apparenze, cogliere con la razionalità della pellicola quanto di indefinibile, di inesprimibile ci circonda nella realtà. Ma casca in quell'errore che qualcuno che ambisce a diventare un poeta del mistero non dovrebbe mai compiere: mostrare -e non solo suggerire all'intuizione dello spettatore- la presenza fisica dell'irrazionale. Ed eccoci allora alle solite cavallette imprendibili, affilate ed unghiute, provviste di alito letale per annientare i disgraziati terrestri ma in compenso allergiche, figuriamoci, alle mazze di legno (il fratello del pastore vanta un più che utile passato di campione di baseball). Potrebbe anche funzionare, se il tutto fosse condito dall'humour dissacrante del Tim Burton di MARS ATTACK: ti pare, Shyamalan è uno che a queste cose ci crede.

Così, la sua storia cola a picco, nel maldestro patetismo di flashback di dubbio gusto. In una vicenda che del mistero e della fragilità dell'intimo ha ormai consumato tutto quanto c'era da saccheggiare.


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